Scopri la storia di Giuseppe Giambrone, il creatore del Tuscany Camp, e di come ha costruito la sua storia di successo.
Dov'è Coach? Coach, cosa facciamo stamattina? Coach, corriamo a Trieste o a Venaria il prossimo mese?
Giuseppe Giambrone è semplicemente il Coach per tutti i suoi corridori. Il Coach è onnipresente al Tuscany Camp. Il Coach ha creato il Tuscany Camp e ci ha dedicato tutte le sue energie per più di 10 anni, tra alti e bassi. Tutto gravita intorno a lui, dagli allenamenti quotidiani alla decisione delle gare a cui partecipare. Avete una domanda? Chiedete al coach.
Cosa significa per te correre con altre persone?
Significa condividere. Significa crescita. Significa aiutarsi uno con l'altro nelle difficoltà quotidiane. Il gruppo ti aiuta nella vita quotidiana. Arrivare al successo da soli è difficile.
Al Tuscany Camp convivono persone di diverse culture. Come siete riusciti a costruire un ambiente favorevole agli atleti?
Qui abbiamo creato un ambiente familiare. Siamo una grande famiglia. I miei atleti vivono qui tutto l'anno. Questa non è una struttura ricettiva, ma è una famiglia, una casa dove si vive insieme ed ognuno fa la sua parte. Chi lava i piatti, chi cucina, chi fa il bucato.
Per esempio, Simon ci ha detto che lui fa i massaggi agli altri atleti.
Esatto, a lui piace fare massaggi agli altri corridori. Per questo dico che è una grande famiglia, ognuno partecipa a suo modo. Questo rende più semplice per i nuovi arrivati integrarsi, dato che trova un ambiente familiare fin da subito.
Familiare nel senso che si è come fratelli. Come dicevo ognuno collabora attivamente nella gestione della casa e questo vale anche per l'aspetto dell'aiuto reciproco, nel senso che sono fraterni anche nei momenti di difficoltà. Per esempio. il campione può avere un momento di difficoltà e gli altri lo aiutano. Questo è il segreto del nostro successo.
Atleti da tutto il mondo vanno e vengono al Tuscany Camp, chi sta una settimana e chi tutto l’anno. Come convivono gli atleti in questo ambiente?
Quando arrivano qui l'impatto è molto forte, perché capite bene che da dove provengono, Uganda e Burundi, non esiste l'acqua corrente e l’elettricità. Quindi c'è un adattamento da un punto di vista fisico, di gestione della vita quotidiana. Tra di loro si adattano velocemente perché ci sono delle regole da rispettare. Chi è qui da più tempo insegna ai nuovi e li aiuta ad adattarsi. Sono come dei tutor o dei fratelli maggiori. Le culture e le religioni possono essere diverse ma il Tuscany Camp è l’emblema che le persone possono convivere al di là di questi tratti personali. In dieci anni non ho mai visto un litigio. Qui ci sono musulmani, buddisti, cristiani cattolici e protestanti, ma vanno tutti d’accordo come fratelli. Per questo penso che le guerre siano per i soldi e non per le religioni in realtà.
Al di fuori del metodo di allenamento, hai creato delle regole da rispettare o lasci libertà nell’ambito della convivenza?
Sono liberi, purché la propria libertà non leda quella degli altri. Questo significa che se ti spetta lavare i piatti li lavi, se devi lavare il bagno lo lavi. Anche se sei tornato da un'Olimpiade con la medaglia al collo e devi lavare il bagno, lo lavi. In questo modo i ragazzi rimangono umili ed è anche un esempio per i giovani che vedono atleti di fama internazionale adempiere ai loro doveri come tutti. “Se lava i piatti lui, devo farlo anche io”.
Questo ultimo punto è importante sia dal punto di vista della gestione quotidiana che dalla crescita dell’atleta. Se il giovane vede il campione nelle sue difficoltà quotidiane capisce che non è perfetto come può apparire dall’esterno. Il campione diventa una persona normale e non è più irraggiungibile. Il giovane a quel punto pensa “Posso provare a diventare come lui”. Allenandosi insieme capita la giornata, la settimana o il periodo storto a tutti e magari riesci ad arrivare davanti al tuo idolo. Ti rendi conto che puoi essere forte come lui e ti motivi. D’altronde chiunque arrivi qui è un talento, ma si deve lavorare per esprimerlo al 100%. Tutti hanno due gambe e possono correre forte.
L’aspetto mentale è molto importante quando già si corre forte.
Purtroppo, conta tanto la mentalità dell’atleta. Se per te correre 2:05 in maratona è qualcosa di impossibile, hai già perso in partenza e non ce la farai mai.
Proprio su questo punto, mi è rimasto impresso quando in un’intervista hai detto che gli atleti italiani non hanno niente da invidiare agli africani e possono correre forte come loro. Per questo hai deciso di iniziare a lavorare con i giovani italiani per dimostrarlo.
Piano piano lo stiamo dimostrando ma c’è bisogno di tempo. È processo lungo anni. Io sono convinto che nel giro di qualche anno avremo degli italiani che corrono veramente forte.
Dall’anno scorso On supporta il Tuscany Camp e ti ha dato l'opportunità di massimizzare il Camp. Nello specifico, cosa ha portato On in termini di valore aggiunto al Camp?
Io ho subito sposato l'idea di On. O meglio loro hanno sposato la mia. Tutto è nato per caso quando ho visto un ragazzo che è venuto qui ad allenarsi due anni fa ed era vestito con un brand che non conoscevo. I prodotti erano buoni e quindi gli ho chiesto di darmi un indirizzo mail a cui scrivere. Così ho scritto direttamente Oliver [Bernard], il founder, presentandomi. Lui mi ha risposto dicendo che gli sembrava un progetto interessante e che voleva parlarne.
Tu dalla tua avevi già delle medaglie mondiali vinte con i tuoi atleti comunque.
Sì, è vero ma nessun brand aveva mai creduto in me fino a quel momento. Fin dalle prime chiamate con Flavio Calligaris, il responsabile degli atleti di On, ci siamo intesi. On ha capito la mia filosofia e il mio modello. L’azienda non doveva cambiare me, ma doveva essere lei ad adattarsi al mio modello. Io ho sempre sviluppato i ragazzi e non atleti affermati. On già faceva questo con i suoi atleti, rifiutandosi di “comprare” i big. Quindi eravamo già allineati su questo tema.
Poco dopo la seconda chiamata con On, per caso un manager di un’altra grossa azienda, che avevo contattato in passato senza successo, si trovò a dover effettuare un tampone Covid-19 nella clinica con cui collaboriamo e decise di rivisitare il Camp. In quel momento si rese conto del valore e del potenziale del progetto. Mi chiamò per comunicarmi il suo interesse e che sarebbe stato pronto a darmi tutto quello che mi serviva se l’avessi voluto. Io non ci sono stato. Dopo che per anni non mi avevano considerato ed io non avevo nemmeno i soldi per far mangiare una pizza ai miei figli, ora con On avevo trovato qualcuno che credesse in me e che la pensasse come me. Perciò ho rifiutato l’offerta di quel manager, che mi prese per pazzo.
Io ho una dignità e quindi devo andare avanti per la mia strada. Oltre all’aspetto lavorativo, c’è quello umano e familiare. On è un’azienda molto familiare da questo punto di vista. Sta molto vicino agli atleti, non solo perché c'è business ma perché sono persone. Ho un ottimo rapporto con Niklas, Jordan, Flavio, Bernard che seguono il Camp da vicino ed Oliver stesso. Questo tipo di rapporto umano non l’ho mai visto nelle grandi aziende. O hai l’atleta forte o non ti salutano.
Passiamo a quello che hai fatto nel 2021 per il mondo dell’atletica. Il 65% dei corridori alle Olimpiadi di Tokyo avevano corso il loro qualificante nell’evento che hai organizzato all’aeroporto di Lampugnano a pochi chilometri da qui. Questo dato è incredibile. Visto il successo che hai ottenuto con quell’evento, ti è mai venuto in mente di organizzarne altri?
L'idea c'è stata varie volte però il progetto è cresciuto tanto ed io sono solo uno. Se mi dedico ad una cosa poi devo sacrificarne un’altra.
In quell’occasione, si veniva da due anni di lockdown ed ho cercato di cogliere l’occasione. È stato un grandissimo successo, non solo mio ma di chi mi ha dato una mano. Io non avevo mai organizzato neanche un torneo di briscola al bar [ride], mentre questo è stato il secondo evento di atletica per importanza dopo le Olimpiadi nel 2021. Senza i volontari non sarebbe mai potuto essere possibile.
Il problema è nato quando si è deciso di fare le Olimpiadi ma non c’erano le gare per fare i qualificanti. Le federazioni si sono opposte a questa situazione e World Athletics ha dovuto convocare una riunione per risolvere il problema ed identificare un luogo dove si potesse svolgere una maratona in sicurezza. Nessun politico voleva assumersi questa responsabilità. Quando mi hanno contattato ho deciso di provarci.
Il primo evento è stata una mezza maratona in febbraio che abbiamo organizzato in dieci giorni ed è servita come test. Poi, due mesi dopo, la maratona. Fin dall’inizio il sindaco, il questore ed il prefetto se la sono sentita di rischiare con me. Io avevo poco da perdere, loro ben di più. Hanno capito fin da subito l’importanza per il territorio di un evento del genere. Poi ho radunato chi conoscevo e che sapevo che poteva dare una mano, elettricisti, muratori e così via.
Tutto questo è avvenuto durante la pandemia. Come avete gestito la logistica, gli spostamenti, la sicurezza sanitaria?
Il connubio tra pubblico e privato è stato fondamentale per la riuscita dell’evento. Ognuno ha fatto quello che fare per aiutare e facilitare l’evento, dalla Fidal ed il Coni fino al comune e la regione. Non parliamo di soldi, ma di collaborare.
Abbiamo ottenuto 250 visti d'ingresso in un mese per atelti da 37 nazioni. Dal punto di vista sanitario è stato un successo. Grazie hai tanti volontari abbiamo effettuati 600 tamponi in due giorni. E non siamo a Milano dove è semplice trovare chi fa un tampone, qui siamo in un paesino. Abbiamo dovuto riaprire le strutture ricettive per ospitare gli atleti ed organizzare i tamponi al momento della ripartenza. Riconosco che siamo stati fortunati ed è stato un successo.
Tu hai sempre detto che questa è una terra di campioni che vorresti diventasse una destinazione turistica per i runner di tutto il mondo. Pensi che qualcosa si stia muovendo in questa direzione?
La cosa mi sta sfuggendo di mano ed io non mi posso occupare di tutto. Gruppi da tutto il mondo mi chiedono di stare una settimana qui per vivere ed allenarsi con i campioni.
Dal punto di vista del territorio, sono state fatte delle iniziative in questa direzione per rendere la località “turisticamente” a vocazione sportiva. Abbiamo mappato tutti i percorsi dove correre qui nei dintorni e reso disponibili queste informazioni alle strutture di ricezione. Abbiamo messo il cartellone all’entrata del paese. Stiamo lavorando con il comune per creare una meta turistica a tema corsa ed usufruire del territorio in maniera gratuita.
Un altro dei tuoi obiettivi dichiarati è di far diventare il Tuscany Camp l’hub europeo della corsa. Ci stai riuscendo?
Come dicevo prima anche questo mi sta sfuggendo di mano nel senso che non ho abbastanza posti per far alloggiare le persone. Noi non siamo una struttura ricettiva e per fortuna ne è stata aperta una qui vicino. Poi abbiamo gli studi medici che offrono un’assistenza di alto livello agli atleti. Questo è un grande vantaggio per esempio per un atleta che viene dalla Cina o dal Giappone e non ha le risorse per portarsi uno staff completo. Qui ha tutto e può allenarsi con altri campioni.
L'Uganda è stata la chiave del tuo successo ed hai creato una connessione con due luoghi estremamente diversi. Come interagiscono Uganda e Toscana nel tuo lavoro?
Ho scelto l'Uganda perché volevo scoprire una nazione nuova. Lì esisteva già il camp di Flavio Pasca e della moglie Beatrice che lavoravano con la federazione. Li ho incontrati lì per la prima volta.
La connessione è nata attraverso il primo atleta che abbiamo accolto al Camp. Questo ragazzo ugandese era diventato alcolizzato e noi l’abbiamo aiutato a rimettersi in sesto e correre forte di nuovo. Lui mi ha accesso la scintilla dell’Uganda e mi ha consigliato dove andare. Io poi mi sono innestato nel camp che già esisteva ed ho aiutato a migliorarlo e potenziarlo, con l’aiuto di World Athletics. Abbiamo costruito un’ala della struttura per le ragazze, una pista d’atletica in terra battuta ed una palestra. Io sono stato lì a dirigere i lavori.
Dopo aver trascorso due giorni qui con te, abbiamo sentito molti atleti dire che qui si vive in modo simile a quello che degli atleti in Kenya per esempio.
Tutti quelli che visitano il Camp hanno la stessa reazione. Qui è come il Kenya senza i rischi del Kenya. Ci si sente come in Africa senza incidenti stradali, rischio igienico e assistenza sanitaria limitata. Quando sei qui pensi solo a correre e riposarti.
Il segreto dei campioni è di non andare a cercare grandi cose. Quando una persona è serena e tranquilla, si allena in maniera progressiva e professionale. In questo modo riesce ad ottenere grandissimi risultati senza che ci siano grandi segreti dietro.
Parlando del tuo metodo di allenamento con Yohanes Chiappinelli, che si è trasferito qui da poco, mi ha detto che non c’è nulla di estremamente diverso rispetto a quell oche faceva prima.
Il segreto non è il programma di allenamento. Ci saranno altri 150 allenatori più bravi di me in Italia dal punto di vista tecnico. Qui è tutto l'insieme. È l'atmosfera. È l'ambiente. È il gruppo che crea una situazione favorevole affinché l'atleta possa riuscire a ottenere il massimo. Io sul fatto del programmino ci ho sempre creduto poco. Il campione non è un amatore che lavora e ha bisogno di un programma d’allenamento dettagliato. Il campione ha un talento fuori dal comune e non è paragonabile agli atleti normali. L'atleta ha bisogno di un supporto psicologico e di una persona che sia come un padre tante volte. Questo ambiente familiare facilita l’espressione del potenziale di un ragazzo, specialmente i più giovani.
Guardandoti indietro a quando hai iniziato l’avventura del Tuscany Camp, cosa faresti di diverso?
Nulla. Per me sta andando tutto bene.
Questa intervista è stata editata.